La focalizzazione su un nuovo punto di vista da parte degli scrittori inglesi del '900 : l'interiorità (riferimento a "Ulysses" di James Joyce e "To the Light House" di Virginia Woolf)

Dopo il 1910, in Inghilterra, crebbe le fama di alcuni scrittori che sperimentavano nuove forme letterarie e cercavano di analizzare i processi mentali dell'uomo.Le teorie di Henri Bergson e William James facilitarono l'affermarsi di queste nuove tendenze, in quanto entrambi i filosofi riconoscevano l'esistenza dell'"interiorità" dell'uomo, che interpretavano come qualcosa di completamente diverso dal reale.

Bergson, infatti, con il concetto di durata definiva il tempo interiore come qualcosa che "eludeva" il tempo convenzionale (ad esempio quello scandito da un orologio). James, invece, fu uno dei primi a riconoscere che la coscienza ed il pensiero si presentano come un fiume, un flusso indistinto che scorre nella mente umana.

Gli scrittori di inizio '900 tentarono di descrivere, attraverso le loro opere, proprio questo aspetto dell'individuo, che costituiva la parte sommersa di quell' "iceberg" che aveva come "vetta" l'elemento razionale e raziocinante della persona. Nei nuovi romanzi si cercava di esaminare che cosa costituisse i processi mentali e come essi funzionassero. Per ragguingere questo scopo furono sviluppate nuove forme espressive che ricordavano per certi versi quelle tipiche delle rappresentazioni cinematografiche. Era comune l'uso del "flash-back", del "fade out", dello "slow-up" e di altri artifici che permettevano di creare più "livelli" di narrazione. Si arrivò ad una "totale" sperimentazione; alcuni scrittori stravolsero le regole della grammatica e della sintassi, non solo attraverso un linguaggio sofisticato che sfruttava parole composte e vocaboli provenienti da altre lingue, ma anche tramite l'omissione della punteggiatura, anacoluti o, addirittura, errori formali.

Molti di questi autori si specializzarono nell'uso del monologo interiore,una tecnica utilizzata per rappresentare il flusso di coscienza.Nell'ambito di questa "rivoluzione"della letteratura furono stravolti anche i concetti di spazio e tempo che, come già detto, non venivano più interpretati in funzione della loro oggettività, ma esclusivamente attraverso " il filtro" della soggettività .E' il caso di "Ulysses" di James Joyce, un'opera complessa, nella quale viene descritto, in ogni suo aspetto, un singolo giorno della vita di tre abitanti di Dublino: Stephen Daedalus, Mr. Bloom e Mrs. Bloom. Essendo presentata tutta l'opera con il "filtro" della mente dei tre protagonisti si nota che non esiste una vera e propria distinzione tra le varie situazioni ed i vari ambienti ma tutto è un flusso continuo (compresa la narrazione), un fiume di parole e di pensieri che scorre lungo le pagine.

Non esiste una scansione cronologica ben definita e i riferimenti a luoghi precisi sono quasi del tutto assenti dato che l'attenzione dei protagonisti si sofferma solo momentaneamente su di essi. Questo effetto è raggiunto anche attraverso l'uso del "dream language" che coniuga elementi realistici (definiti dall'uso di numerosi particolari) con elementi simbolici. Nel capolavoro di Joyce è quasi del tutto assente la punteggiatura e ciò determina una "fluidità" anche dal punto di vista sintattico (i periodi non sono quasi mai interrotti).

Completamente diverso risulta lo stile di Virginia Woolf che mantiene un contatto più evidente con i modelli tradizionali. Nel suo capolavoro "To the Lighthouse" l' autrice elimina i dialoghi diretti e le tradizionali caratteristiche del romanzo ottocentesco per arrivare a rappresentare, attraverso il monologo interiore, i pensieri dei protagonisti. Nel suo capolavoro, l'autrice si avvale di due metodi "ereditati" ,in parte, da Joyce e ,in parte, dal linguaggio cinematografico, ovvero il "time montage" (che consiste nel "fissare" lo spazio e "far viaggiare" il pensiero del personaggio nel tempo) e lo "space montage" (che consiste nel mantenere fermo il tempo e cambiare l' elemento "spaziale).

Nel caso di Joyce si è parlato di "direct interior monologue", in quanto nelle sue opere il "discorso" non è marcato da divisioni, punteggiatura o verbi che possano indicare precise azioni (tra cui quella del "parlare"). Al contrario, per Virginia Woolf,si è parlato di "indirect interior monologue", in quanto l' autrice, mantenendo l' uso della punteggiatura, riesce a definire più precisamente il contesto nel quale si sviluppa il pensiero di un personaggio.

Entrambi gli autori rappresentano un punto di svolta nella letteratura inglese e internazionale; il loro diverso modo di concepire il pensiero umano e l'arte costituisce un punto di vista del tutto innovativo rispetto alle precedenti concezioni. E' per questo motivo che, sia Joyce che Woolf, si inseriscono perfettamente in quel panorama denso di cambiamenti costituito dai primi decenni del Novecento.